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[ 4a figura inesistente ]
Dur. 15' 43"
Sembra proprio che io voglio credere, e farvi credere, che il dipinto di van Gogh che balena cinque anni dopo alla luce del ricordo di Heidegger sarebbe una sorta di figura trinaria unificata dallo spirito della merce.
Come definire altrimenti un paio di scarpe da contadino prive di “grumi di terra dei solchi o dei viottoli”, “vuotamente presenti nel loro non-impiego” in “uno spazio indeterminato[1], se non come delle scarpe messe in vetrina per esser messe in vendita – in un negozio della metropoli (come sosterrebbe Schapiro), o in un emporio della provincia contadina (come immaginerebbe Heidegger)?
Separate in ogni modo, le scarpe ci guardano, a bocca aperta, vale a dire mute, lasciano discorrere, interdette di fronte a coloro che le fanno parlare.[2]

Ma queste scarpe di van Gogh ci guardano forse con lo sguardo ottuso delle merci?
Non più:

Le sue scarpe, ce le mostra isolate, posate al suolo, che ci guardano, e talmente personalizzate, deformate dall’uso da potervi scorgere la veritiera immagine di calzature usurate fino all’ultimo stadio.[3]

Queste scarpe sono lì nel quadro, nello “spazio indeterminato” della “devastazione”, del “dileguare dell’uso”, del “deperimento”. Esposte nel riposo[4] del loro “non impiego” mostrano tuttavia[5] che hanno calpestato la terra e “nelle quali ritroviamo la tensione del movimento, le tracce della fatica, della pressione e della pesantezza, il peso dell’intero corpo nel suo contatto con il suolo” - aggiunge Schapiro, arrendendosi (forse solo polemicamente) alla visione heideggeriana [6].

Mostrandocene il consumo queste scarpe (qualunque siano) si mostrano come vere scarpe nello sviluppo pratico della “fidatezza”; ossia nel momento in cui la contadina (o van Gogh) non si limitano a confidare in esse, ma quando ed in quanto diventano oggetti per il soggetto attivo.[7]

Un vestito non diviene realmente un vestito che per l’atto di portarlo; una casa che non è abitata, non è in effetti una vera casa; il prodotto, quindi, a differenza del semplice oggetto naturale, si afferma, diviene prodotto soltanto nel consumo.[8]

Nell’opera di van Gogh è dunque all’opera la devastazione stessa dell’esser-mezzo, colta nel suo proprio punto critico. Tuttavia

Dissolvendo il prodotto, il consumo gli dà veramente il finishing stroke.[9]

E’ solo nella raffigurabilità dell’uso che l’indifferente ottusità delle scarpe-merci, si ottunde in un sorriso ospitale, per quanto enigmatico.[10]

Ma tutto ciò forse non lo vedo che solo io nel quadro di van Gogh.
Heidegger, però, conosce bene questo sviluppo del “mezzo” che degrada a mero mezzo... tuttavia non ci sta, e se ne rammarica.

Il singolo mezzo viene consumato e logorato; ma anche l’usare incappa nel frattempo nell’usura, si ottunde e diviene comune[11]. Così lo stesso esser-mezzo si corrompe e decade a mero mezzo. Questa devastazione dell’esser-mezzo è il dileguare della fidatezza. Il deperimento a cui le cose d’uso debbono la loro la loro noiosa e importuna abitualità non è che un segno dell’essenza originaria dell’esser-mezzo.[12]

Ma non è proprio questa sorta di colpa originaria a far sì che delle scarpe in potenza divengano scarpe reali e vere?
Che scarpe vede invece il filosofo?

Ma forse tutto ciò non lo vediamo che noi nel quadro. La contadina, invece, porta semplicemente le sue scarpe. Se almeno questo “semplice portare” fosse davvero semplice! Quando, alla sera, la contadina, stanca ma lieta, si toglie le scarpe; o quando, al primo mattino, le ricalza; oppure quando in un giorno di festa le smette, essa sa tutto questo senza bisogno di osservazioni o di considerazioni.[13]

In quest’ultima enunciazione vedo attivarsi un qui pro quo che solo un filosofo può permettersi, ossia di considerare il conoscere come il fare pratico, così d’arrivare a concludere che la contadina “sa tutto questo” dopo aver invece elencato quello che essa fa. D’altra parte il fare (pratico) specifico del filosofo si svolge come sapere (teorico).
Un equivoco non passeggero, che informa di sé l’argomentazione che contrappone l’esperienza della visione del quadro di van Gogh da parte del filosofo, all’esperienza empirica della contadina la quale, pur non avendole viste prima raffigurate in un quadro, porta semplicemente le sue scarpe… se le toglie… le ricalza… o le ripone… “senza alcun bisogno di osservazioni o di considerazioni”.
Nel fare pratico e semplice della contadina Heidegger ravvisa tuttavia qualcosa di faticoso per il sapere filosofico che gli fa dire: Se almeno “questo semplice” portare fosse davvero semplice!
La possibilità che la vita immediata offre alla contadina sembra averlo colto di sorpresa.
Eppure basterebbe che rileggesse le sue stesse parole per rendersi che mentre lui conosce le scarpe nell’intelletto la contadina le conosce nell’uso; e poiché tanto più un mezzo è un vero mezzo quanto più svolge la sua attività di mezzo,  ovvero quanto meno è presente ai termini di cui è mezzo, ecco come avviene che per la contadina le scarpe scompaiano nell’uso, dissolte nello svolgere la propria essenza originaria di mezzo in un processo lavorativo volto a incontrare piuttosto una patata che il paio di scarpe di cui si è servita[14].
Mentre la contadina incontra il mezzo consumandolo, il filosofo incontra il “mezzo” pensandolo[15]. Per l’una le scarpe sono un mezzo per la vita immediata, per l’altro sono un mezzo per accedere all’assoluto. Dove l’una porta le scarpe nei solchi delle arature, l’altro le porterà… al Museo.
E qui, lui sa bene che stando davanti all’opera di van Gogh, la contadina non potrà mai vedere ciò che vede lui.

...tutto ciò non lo vediamo che noi nel quadro. La contadina, invece…

La contadina, invece… così come porta semplicemente le sue scarpe, porterebbe ugualmente il quadro con la medesima semplice abitualità.
E non sarebbe, ancora una volta, proprio questa “noiosa e importuna abitualità” a fare dell’opera d’arte in potenza un’opera d’arte reale e vera?[16]

Il quadro che mostra le scarpe non si limita a far conoscere qualcosa circa il suo singolo ente, ma fa sì che si storicizzi il non-esser-nascosto come tale, in relazione all’ente nel suo insieme.[17]

Ma cos’è infine lo storicizzarsi dell’opera se non il passaggio dell’opera in astratto all’opera storica[18].
Ed è appunto questo che vede il filosofo, e non gli piace troppo; perché sul terreno della storia attuale trova che tutti i prodotti del lavoro e il lavoro stesso sono delle merci, e che qui la critica d’arte non può procedere più soltanto sul terreno della critica d’arte.
Nei riverberi dello storicizzarsi dell’opera d’arte come merce il filosofo vede profilarsi un’insidia. - “Se almeno questo semplice portare fosse davvero semplice...” - esclama allora scuotendo il capo, come per rilanciare un’ultima istanza in favore della filosofia… mentre l’arte rimane tuttora in attesa di un chiarimento critico che la filosofia non può dargli senza negare sé stessa…

Ora però è il momento che io faccia ricordare di aver già confessato di non aver mai imparato a pensare e scrivere di filosofia, e di esserne sinceramente felice, perché in tal caso potrei aver imparato anche a evitare di cacciarmi in situazioni per me troppo imbrogliate… Ma l’opera d’arte sembra indurre in tentazioni e pedanterie di questo tipo, e viene custodita proprio affinché possa venir usata anche per certi rimasticamenti, metafisici o semplicemente impressionistici - come questo mio sulle scarpe dipinte da van Gogh, che è una modalità tra le tante di consumare l’opera d’arte, oltre che sé stessi.

[1] - “Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio di scarpe da contadino non c’è nulla di cui potrebbero far parte, c’è solo uno spazio indeterminato” (Origine Ni68, p. 19);  “né a chi appartengano”, ha aggiunto successivamente qui accanto Heidegger in una nota autografa inserita successivamente. - Qualcuno sostiene che delle scarpe parigine, “neanche van Gogh sapeva che farsene: le ha ritratte quando erano ancora una realtà visibile, non così deteriorate da essere irriconoscibili, le ha ricreate in forma visiva, bidimensionale. Si è accontentato di quella (multipla) riproduzione visiva (lui sì che se n’è accorto delle scarpe, a differenza della contadina!), di cui si è servito, per poi separarsene a lavoro finito. L’opera ha “camminato” per proprio conto, prendendo la strada del mondo… Degli originali, delle vere scarpe che gli sono servite da modello, non si è curato. Le ha lasciate dov’erano, al loro destino. Scarpe inutili, che non gli servivano più per camminare, che non servono più per fare arte. Ne marchent pas. Non funzionano, non vanno. Meglio lasciarle perdere” [Carlo Bordoni, Le scarpe di Heidegger, ed. Solfanelli, Chieti 2005, p. 19]. E’ molto probabile invece, che quelle scarpe, usate già dal carrettiere e da chissà quanti altri, siano servite al pittore come scarpe ancora per diverso tempo, per poi finire ai piedi di un bracciante agricolo, magari giusto di Arles…  e solo un damerino può intenderle abbandonate e morte giacché senza più il lustro della vetrina o di un gratificante sguardo dell'arte.
[2] - Derrida, Restituzioni, cit., pag 251.
[3] - Schapiro, L’oggetto…, cit., pag 198.
[4] - O “esposte nell’abbandono”? Sarebbe proprio abbandono il termine che la melanconia sceglierebbe. Io preferisco vederle sempre in cammino, ovvero consumate dall’uso, come in Schapiro… e quindi messe a riposo da  Heidegger.
[5] - Mancando tracce visibili di terra (cioè accettando la constatazione di Heidegger) anche io sono costretto ad inserire qui un “tuttavia” per poter acquisire la seguente descrizione di Schapiro.
[6] - Schapiro, La natura morta come oggetto personale, cit. pag 199.
[7] - Questo credo sia espresso da Heidegger a proposito delle scarpe che debbono essere colte nel loro uso, quando sono nei campi…
[8] - Marx, Lineamenti, cit. p. 15
[9] - (l’ultima rifinitura) Ivi
[10] - Che ci accoglie con le parole di Derrida: “Sembrerebbe quasi che si voglia dire la verità a proposito del feticcio. Dobbiamo anche noi avventurarci in questa impresa? Ma per far questo dovremmo ascoltare la discussione tra i due celebri professori nell’eco di molti altri testi. Marx, Nietzsche, Freud.” [Restituzioni…, cit. p. 255].
[11] - L’uso stesso del mezzo si consuma, fino a svanire del tutto: su di me non puoi più contare come hai fatto finora…
[12] - Heidegger, Origine Ni68, p. 20.
[13] - Heidegger, Origine Ni68, p. 19. - L'equivoco potrebbe pure generarsi dalla traduzione, ma io non posso e non voglio considerare questa eventualità: mi attengo al testo di Chiodi, che si è assunto l'onere di farmi accedere al pensiero di Heidegger.
[14] - Le scarpe sarebbero un prodotto per il calzolaio, mentre per la contadina il prodotto (l’opera del suo operare) è magari la patata, non certo le scarpe; quello che all’uno si presenta come prodotto, all’altro si presenta come mezzo. Così, anche, la patata come prodotto della contadina diviene un mezzo nel piatto del calzolaio… Opera e mezzo sono categorie utili a descrivere, non a spiegare senz’altro.
[15] - L’imbroglio (anche feticistico) scaturirebbe dalle collocazioni delle cose fuori dal sé, come cose oggettive e non soggettive…
[16] - Così come l’uso e il consumo ha fatto delle scarpe in potenza delle scarpe reali e vere.
[17] - Semplificazione da Origine Ni68, p. 40-41.
[18] - Cioè, per quanto ci riguarda: il passaggio del singolo ente (prodotto particolare) in relazione all’ente come insieme (la produzione in generale), dunque: merce e produzioni di merci.






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